Quattro
E’ una dorata notte d’agosto, di quelle notti in cui il
rumore dei sandali sull’asfalto del corso principale del mio paese è
accompagnato dalle ultime grida di uomini in festa. Passeggio mano nella mano
con la Morte: una donna alta, avvolta da tisica magrezza e velata di stelle.
Con occhi pallidi e sporgenti, osserva il mio seno che respira; quella donna
con la sua mano grande abbraccia la mia vita. E’ il mio angelo custode,
protettrice della mia giovinezza e dei miei incubi.
E’
una dorata notte d’agosto, di quelle notti in cui il rumore dei sandali
sull’asfalto è accompagnato dallo sguardo catatonico di un uomo in canottiera,
seduto su una sedia di vimini, sotto il portico della veranda. Sudato e mezzo
addormentato, tiene accanto a sé una radiolina portatile. Quando una mosca o
una zanzara si poggia sul suo grosso naso, l’uomo in canottiera viene
richiamato alla realtà e con un automatico e maldestro movimento della mano
sinistra inizia a tastarsi tutto il volto, alla ricerca dell’elemento di
disturbo. Dopo aver borbottato imprecazioni incomprensibili, si rilassa sulla
sedia e con l’indice e il pollice della mano destra inizia a ruotare la
manopola della radiolina, alla ricerca di una, forse precisa, stazione
radiofonica. Ci sintonizziamo sul notiziario notturno, poi svoltiamo a destra
passando per annunci per cuori solitari, ed infine arriviamo a destinazione: un
passionale e malinconico tango. La mano destra dell’uomo in
canottiera congeda la manopola della radiolina e si adagia sul bracciolo della
sedia. Tutto il corpo si rilassa, le gambe si distendono e la testa si volge
verso il cielo stellato. Gocce di sudore iniziano a colargli dagli occhi, la
bocca si socchiude in un sorriso, lasciando intravedere i denti guasti, da cui si
generano sorgenti di saliva che inumidiscono le labbra spaccate, poi i peli
della barba, il grosso collo unticcio e infine gli esausti riccioli neri che
fuoriescono dalla canottiera bianca. Il suo ventre rigonfio ondeggia al
movimento del respiro, ormai divenuto affannato. Le note di tango continuano inesorabili ad inseguirsi, ignare di aver regalato a quell’uomo,
l’ultimo, fugace, istante di vera bellezza.
E’
una dorata notte d’agosto, di quelle notti in cui il rumore dei sandali
sull’asfalto è accompagnato dallo sguardo catatonico di un uomo in canottiera e
dal pianto di un bambino. Sulla collina ad ovest si erige una grande casa in
mattoni placcati di edera. La prospettiva di un lungo viale di cipressi trova
il suo punto di fuga in un grosso portone di legno scuro. Sopra di esso un
balcone pericolante cinge i vetri sporchi ed appannati di una finestra, che si
apre su una stanza spoglia di mobili, ma ornata di quadri impolverati e di
porte socchiuse. Al di là di quelle, chissà dove, un bambino sta piangendo,
stretto nelle braccia di una donna. Odo suon di lacrime e di antiche litanie.
Odo lo scricchiolare delle assi di legno sotto i passi cadenzati della donna.
Sta vagando per tutta la stanza, dondolando le braccia che proteggono il bambino.
Posso immaginare tutti i loro movimenti: canticchiare le note della ninna-nanna,
contare ogni loro attimo di respiro. La familiarità di quel rituale mi spinge
ad entrare all’interno della casa, cercare la stanza in cui si nascondono…
Delicatamente ruoto la maniglia del portone d’ingresso ed entro. Mi ritrovo in
una stanza rettangolare, con i muri rivestiti da una logora carta da parati;
c’è un odore di fiori tutt’intorno. Con passo sicuro mi dirigo verso
l’estremità opposta della stanza e con forza spalanco un’altra porta, bucata
più volte dal passaggio dei tarli e del tempo. Mi accoglie un ambiente non
molto diverso dal precedente: pareti
prive di finestre, stanza illuminata dalla luce di qualche candela
morente, candele abbandonate su piedistalli d’oro e avorio sotto ragnatele
centenarie. Proseguo nella mia ricerca e oltrepasso un’altra porta che mi apre
lo sguardo ad una camera, il cui soffitto è coronato da un enorme lampadario
ornato di intagli. Dodici lumini se ne stanno, come gli Apostoli, tutt’intorno
al Crocifisso che si staglia al centro del lampadario. La sacra scultura se ne
sta lì, appesa ad una catena d’oro e spine; se ne sta lì, congelata, a fissare
la parete e col suo sguardo duro ed insanguinato pare quasi che possa far
crollare il muro. Il mio corpo s’abbandona al tepore di quella stanza e le mie
orecchie si addormentano al canto della quiete eterna. Sonnambula e leggera mi
rimetto in cammino. Soffio come l’inverno, con le mie dita gelide, su migliaia
di maniglie che nascondono interminabili porte. Non riesco a raggiungere le
grida disperate dell’infante, non ricordo più le parole della ninna-nanna! Mi
fermo, bloccata nella stanza 324. D’improvviso, mi giro e vedo in fondo alla
camera due figure umane. Percorro con gli occhi i loro lineamenti: una donna di
spalle, avvolta da una pesante veste candida, i capelli nascosti da un velo di
seta coronato da splendidi fiori e il capo chino su un involucro di carta nera.
Lentamente la donna si volta verso i miei occhi acquosi. Sulla sua faccia,
leggermente inclinata verso destra, si apre, dietro una bocca senza labbra, un
sorriso malinconico e, sotto pesanti sopracciglia, sanguinano due garofani
rossi. Colano lacrime infuocate dalle increspature dei petali, scivolano sulla
pelle marmorea e impregnano per sempre la veste candida del loro odore
metallico. Il dolce aroma dei fiori si macchia con il tanfo delle ferite aperte
che mi porto sul corpo. E l’ultima immagine che riesco a rendere mia prima
dell’oblio, è il volto consumato, isterico, nudo, di una vecchia cullata
beatamente tra le braccia della Vergine.
E’ un
dorato pomeriggio d’agosto, di quei pomeriggi in cui il rumore dei piedi nudi
sull’asfalto ghiacciato è accompagnato dall’infinito silenzio dell’orizzonte.
Intorno alla mia figura vestita di rugiada, il paesaggio è vuoto di
familiarità. Tre soli sono il mio passato; illuminano di polverosa lucentezza,
il cielo alle mie spalle. Tre lune sono il mio futuro; brillano, nel cielo
davanti ai miei occhi, come specchi che riflettono tramonti. Sono un’esile
figura sotto l’imponenza di due cieli, sono l’impossibile contatto tra il
giorno e la notte, sono l’amore primitivo che li lega, sono la maledizione che
li tiene lontani. Sono un tramonto che muore e una luna che nasce dal ventre
dell’universo, sono un’alba pura ed una notte tremante e disordinata. Resto in
attesa in questo Limbo onirico. Mi distendo sul materasso di cemento, a fissare
il Cosmo. I due cieli si separano dalla parete, alla quale sono incollati, ed
assumono sembianze umane. Le braccia dell’essere arancione avvolgono quelle blu
cobalto della timida notte. Sorge Il bacio. Le due bocche dell’Universo
continuano ad inseguirsi fino a Mezzogiorno; poi, meravigliosamente, mi entrano
in gola come acqua d’oceano. Appassisce il mio corpo mortale, soffocato da
quelle acque di velluto blu. Naufraga il mio scheletro verso nuovi tramonti. Corre
la mia anima, sotto un cielo di roccia, in cerca della sua ombra.
E’ una dorata mattina d’agosto, di quelle mattine in cui
il rumore dei sandali sull’asfalto è accompagnato da profondi respiri che si
inseguono nell’arido deserto di una gola muta. Le mie gambe stanche si
abbandonano alla loro debolezza e precipitano all’interno dell’asfalto della
strada; precipitano giù, tirando dietro di loro tutto il corpo. Una squallida
discesa nell’Ade, in cui i miei occhi non riescono a vedere altro che buio. Ma
il mio naso… il mio naso vola via con una scia di profumo che avvolge tutta la
miseria di questo viaggio. E’ una piacevole maledizione quella di essere legati
ad un odore invisibile ed intangibile: il mio polmone sinistro ne è pieno, e
sta per esplodere dentro il torace, come un risveglio in primavera, dopo sette
inverni di sonno. Prosegue il viaggio all’interno dell’esistenza e, intanto, io
continuo a svegliarmi. Un brandello di carne cruda e sanguinante mi sale in
gola e poi si infila sotto i miei denti. Lo accarezzo con la lingua… lo
trafiggo con la punta di un canino. Dalla ferita provocata su quel pezzo di me,
escono le tempeste più grandi dei miei pensieri, le parole più forti della mia
gola, le passioni più nere della mia vita...
Nuda, percorro con lo sguardo i colori dell’alba. Il
pavimento di questo obitorio accarezza il mio corpo di squame che striscia
sinuoso sopra di esso. La gelida luce delle lampade al neon si riflette sulla
viscida superficie della mia lingua biforcuta, ma nelle mie iridi umane, troppo
umane, puoi ancora intravedere quelle lacrime spezzate da un sorriso. Sono
giunta alla fine. Il cerchio sta per chiudersi. Inarco la colonna vertebrale e con
la terribile bocca divoro la mia coda. I denti affilati e lucenti perforano la
carne cruda e la lingua spalma su di essa tutto il veleno che mi porto dentro. Infinito
è il mio riflesso, eterno è il mio grido di vita, immortale è il mio spirito
vestito di ossa e di vene. Trafitta sempre dalle stesse ferite, continuo a
ruotare sugli specchi incrinati, ascoltando il rumore della mia nascita dall’utero
di una nuova donna. Fecondata dal seme di Dio e abbandonata sulla terra, una
sposa randagia partita alla ricerca della roulotte del Padre dell’Universo.
Sto
morendo Maria… sto morendo perché ormai il veleno ha dissetato tutto il mio
corpo. Sto morendo nell’unico istante in cui mi è concesso di ricongiungermi al
Suo sguardo.
Guardami
morire, al sicuro, per l’ultima volta, nella mia bara di segreti. Sposa triste della notte, coronata di spine e
crisantemi. Ascoltami morire. Ascolta per l’ultima volta il suono del mio canto
e lascia che il mio respiro ti consoli. Accarezza il mio corpo che diventa
gelido, e bacia quei denti malati che mi hanno permesso di addormentarmi nel
Paradiso. Divora la mia carne e lascia che il padre Inferno si prenda cura
della mia anima. La coda che sono costretta a sopportare nella mia bocca mi sta
soffocando, ed ogni violenta contrazione dei polmoni è un battito in meno della
mia vita.
Sto
nascendo Maria… tutto intorno a me è caldo di sangue. Abito in una dimora estranea
al mio corpo, ancora inesistente ai miei occhi. Sento le sue pareti che vibrano
di paura, ed il primo sentimento che ascolto è il dolore; il primo odore che
sento è il puzzo del ferro sterile bagnato dalla linfa di quella che chiamano
Madre. L’oceano di frattaglie che ha nutrito la mia carne è evaporato dentro il
caldo di quest’ospedale. Non più leggera come battiti di palpebre, scivolo:
grande, pesante, sporca, tra queste ossa troppo strette. Sto soffocando nell’oscurità
della mia nascita…
Sono
sospesa in bilico tra il sonno della notte ed il risveglio di un nuovo giorno,
vittima e carnefice del mio corpo, giudice ed imputato della mia esistenza.
In questa cripta di specchi, non c’è via d’uscita
alternativa alla trasmigrazione, di questa mia anima morta, in un corpo caldo.
Invano ho cercato di aprire al mio destino le porte del Nulla: sono destinata a
rimanere qui. Tutto eternamente uguale a sempre. La superficie riflettente mi
costringe ad osservare il mio animalesco profilo, la sento ridere dietro ogni
mio riflesso. Le mie teste tremano sotto il peso dei ricordi; l’ultimo granello
di sabbia sta per essere sacrificato all’interno di una lontana clessidra,
giustiziato dalla spada del tempo esterno alla mia coscienza. L’ultima immagine
che i miei occhi, infranti dal il vento di questa alba finita, riescono a
vedere, è quella di un cordone ombelicale che viene reciso, accompagnato dal
primo respiro di vita. Il cerchio si è chiuso: la fine ha divorato l’inizio e
l’inizio ha trovato il coraggio di spezzare ancora, ancora inutilmente, ancora
intensamente, questa catena di eterni ritorni all’uguale. Ed in quest’unico enorme,
effimero istante, in cui i tempi convergono e si scontrano e i sensi sono
annullati e l’esistenza stessa non è più una condizione necessaria dei corpi,
che riesco a percepire tutta la mia meravigliosa umana mortalità.
Sono nata una mattina d’agosto. Il mio corpo si è
finalmente mostrato a me, ed i miei polmoni si sono schiusi tra il camice e le
lacrime di mia madre. Il mio stomaco è affamato, e la mia mente è popolata da
istinti. Le mie intenzioni sono pure ed il mio sesso è nudo di ogni pudore. La
vita è mera sopravvivenza, in cui il pianto e le grida vuote di alfabeti sono
il mio unico linguaggio. Il mio tempo è tutto lì, tra un sonno e l’altro. Nuoto
felice in vasche di disinfettanti ed i miei sensi, vergini d’esperienza,
esultano dietro ogni battito del mio cuore. La mia memoria è abitata da
contrasti: il dolore e la gioia non sono altro che morsi nello stomaco ed il
suono della chitarra di mio padre. Il domani è solo il proseguimento di un
sogno presente, la mia felicità sta nell’assenza della consapevolezza del
futuro.
Sono
morta una mattina d’agosto. Del mio corpo non è rimasto nulla, solo brandelli
inceneriti e l’odore della carne bruciata. Il mio spirito si è dissolto nel tuo
nuovo corpo e nulla conserva di me. Sono stata la sorgente d’acqua benedetta
che ha lenito gli inferni dell’utero dal quale sono nata, sono stata la
molecola d’ossigeno che ha infiammato la mia fine. Porterò il fuoco dentro di te
e, nei torbidi giorni d’estate, brucerò i tuoi capelli d’oro e le tue labbra
renderò scarlatte. Ogni passo sarà una tortura, ogni lacrima un’ustione, ogni
pensiero un’ossessione. Laverai il tuo corpo in stagni di magma rovente ed ogni
notte ti perderai in un incubo senza luci. Arriverò puntuale a trovarti,
accompagnata dalle mie due sorelle Discordia ed Armonia, allo scadere di ogni
ciclo lunare. Saremo le guide dei tuoi sonni, le manipolatrici del tuo
inconscio, e tu ci odierai con ogni fibra della tua pelle, che un tempo
proteggeva la fragilità del mio spirito. Mi troverai, con le martoriate braccia
tese verso le tue candide mani, nel profumo di ogni immacolata rosa.
Le rose che ho colto per te dal centro della Terra.
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